Jacques Attali

Karl Marx. Ovvero, lo spirito del mondo

Fazi, Roma 2008

1.

A distanza di oltre dieci anni dalla provocazione di J. Attali (Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994), giunto ad affermare che la salvezza del mondo riposava sul recupero dello spirito di Marx, Jacques Attali ripropone lo stesso tema (l’ultimo capitolo è titolato Lo spirito del mondo) con un’affascinante biografia che, rispetto al saggio di Derrida, ha il vantaggio di essere scritta con uno stile elegante, ma piano e leggibile.

In virtù di questo, o perché i tempi sono maturi, il libro di Attali ha avuto uno straordinario successo di critica e di pubblico, laddove quello di Derrida è stato letto praticamente solo dagli addetti ai lavori.

Dirò subito che, a mio avviso, il successo è ampiamente meritato. La biografia di Attali non è solo densa di particolari e di riflessioni sulla vita e la personalità di Marx e sui suoi rapporti con i parenti, gli amici, i sodali e gli avversari. Essa è caratterizzata non solo da un metodo contestuale che fa riferimento all’ambiente storico e agli eventi politici, culturali e scientifici più rilevanti, ma anche da un’analisi di pressoché tutte le opere di Marx che è sintetica, ma estremamente precisa ed equilibrata nei giudizi.

Attali confessa preliminarmente di non essere mai stato marxista. Del resto, lo affermava anche Marx posto di fronte alle sorprendenti interpretazioni del suo pensiero fornite da Lassalle e dai lassalliani. E’ fuor di dubbio, però, che, pur non essendo marxista, Attali, nel corso dell’opera, ha subito il fascino di Marx, come capita a chiunque legge con attenzione la sua opera, indipendentemente dall’ideologia di riferimento (e, naturalmente, fatta eccezione per gli anticomunisti viscerali, che, però, in genere si vantano di non avere letto Marx.

La fascinazione di cui è stato preda Attali è comprovata dalla splendida Introduzione, che riporto integralmente:

“Nessun autore ha avuto più lettori, nessun rivoluzionario ha riunito più speranze, nessun ideologo ha suscitato più esegesi e, a parte qualche fondatore di religioni, nessun uomo ha esercitato sul mondo un'influenza comparabile a quella che Karl Marx ha avuto sul XX secolo.

Tuttavia, poco prima dell'alba del secolo successivo, nel quale viviamo, le sue teorie e la sua concezione del mondo sono state universalmente rigettate. E la pratica politica costruita intorno al suo nome è stata buttata tra i rifiuti della Storia. Oggi non lo studia quasi più nessuno, ed è di buon gusto sostenere che abbia sbagliato a credere il capitalismo moribondo e il socialismo a portata di mano. Agli occhi di molti è considerato il principale responsabile di alcuni tra i più gravi crimini della storia, e in particolare delle peggiori perversioni che segnarono la fine dello scorso millennio, dal nazismo allo stalinismo.

Leggendo attentamente la sua opera, si scopre tuttavia che egli ha visto, molto prima di chiunque altro, in cosa il capitalismo costituisse una liberazione dalle alienazioni precedenti. Si scopre così che non ha mai pensato alla sua agonia e che non ha mai creduto il socialismo possibile in un solo paese, ma che al contrario ha fatto l'apologia del libero scambio e della globalizzazione, e che ha previsto che la rivoluzione non sarebbe giunta - se mai avesse davvero avuto luogo - che come superamento del capitalismo divenuto universale.

Ripercorrendo la sua vita, si prende così coscienza dell'estrema attualità di questo straordinario destino, considerato in tutte le sue contraddizioni.

Innanzitutto, perché il secolo che ha attraversato somiglia in modo stupefacente al nostro. Come oggi, il pianeta era dominato demograficamente dall'Asia ed economicamente dal mondo anglosassone. Come oggi, la democrazia e il mercato tentavano di conquistare il pianeta. Come oggi, la tecnologia rivoluzionava la produzione di energia e di oggetti, le comunicazioni, l'arte e le ideologie, e annunciava una formidabile riduzione della fatica del lavoro. Come oggi, era impossibile sapere se i mercati fossero alla vigilia di un'ondata di crescita senza precedenti o al parossismo delle proprie contraddizioni. Come oggi, le disuguaglianze tra i più potenti e i più miserabili erano considerevoli. Come oggi, gruppi di pressione - a volte violenti, a volte disperati - si opponevano alla globalizzazione dei mercati, all'ascesa della democrazia e alla secolarizzazione. Come oggi, molte persone speravano in un'altra vita, più fraterna, che liberasse gli uomini dalla miseria, dall'alienazione e dalla sofferenza. Come oggi, un buon numero di scrittori e di uomini politici si contendevano l'onore di aver trovato la via per condurvi gli uomini, con le buone o con le cattive. Come oggi, uomini e donne - in particolare giornalisti come Marx - morivano in nome della libertà di parola, di scrittura, di pensiero. Come oggi, infine, il capitalismo la faceva da padrone, influendo ovunque sul costo del lavoro e modellando l'organizzazione del mondo sull'esempio di quella europea.

E ancora, perché la sua azione è all'origine di ciò che è essenziale nel nostro presente: è in una delle istituzioni che Marx ha fondato, l'Internazionale, che è nata la socialdemocrazia; è con la caricatura del suo ideale che si sono costruite alcune delle più terribili dittature del secolo scorso, di cui parecchi continenti subiscono tuttora le conseguenze. E con le scienze sociali, di cui Marx fu uno dei padri, che abbiamo forgiato la nostra concezione di Stato e di Storia. E con il giornalismo, di cui Marx fu uno dei maggiori protagonisti, che il mondo non smette di conoscersi e dunque di trasformarsi.

Infine, perché rappresenta il punto di incontro di tutto ciò che costituisce l'uomo occidentale moderno. Eredita dall'ebraismo l'idea che la povertà sia intollerabile e che la vita abbia un valore solo se permette di migliorare le sorti dell'umanità. Eredita dal cristianesimo il sogno di un avvenire liberatorio nel quale gli uomini si ameranno vicendevolmente. Eredita dal Rinascimento l'ambizione di pensare il mondo razionalmente. Eredita dalla Prussia la certezza che la filosofia è la prima delle scienze e che lo Stato è il cuore, minaccioso, di ogni potere. Eredita dalla Francia la convinzione che la rivoluzione sia la condizione dell'emancipazione dei popoli. Eredita dall'Inghilterra la passione per la democrazia, per l'empirismo e l'economia politica. Per finire, eredita dall'Europa la passione per l'universale e per la libertà.

Attraverso queste eredità, che riconosce e ricusa di volta in volta, Marx diventa il pensatore politico dell'universale e il difensore dei deboli. Anche se molti filosofi prima di lui hanno pensato l'essere umano nella sua totalità, lui è il primo a concepire il mondo come un insieme allo stesso tempo politico, economico, scientifico e filosofico. Seguendo l'esempio di Hegel, suo primo maestro, Marx intende dare una lettura globale del reale; ma diversamente da lui riconosce il reale solo nella storia degli uomini, e non più nel regno di Dio. Manifestando un'incredibile bulimia per tutte le discipline e tutte le lingue, si affanna fino all'ultimo respiro per abbracciare il mondo intero e tutte le risorse della libertà umana. E' lo spirito del mondo.

In definitiva, lo straordinario percorso di questo proscritto, fondatore dell'unica nuova religione degli ultimi secoli, ci permette di capire come il nostro presente sia fondato su questi uomini rari, che scelsero una vita di privazioni, vissuta ai margini, per preservare il loro diritto di aspirare a un mondo migliore non appena le porte del potere fossero state loro aperte. Abbiamo nei loro confronti un dovere di gratitudine. Allo stesso tempo, il destino dell'opera di Marx ci mostra come il sogno più bello possa trasformarsi nella peggiore barbarie.

Lo dico senza enfasi e senza nostalgia. Non sono mai stato e non sono "marxista" in nessuna accezione della parola. L'opera di Marx non mi ha fatto compagnia nella giovinezza, per quanto possa apparire incredibile, non ho nemmeno sentito pronunciare spesso il suo nome durante i miei studi di scienze, diritto, economia e storia. Il mio primo serio contatto con lui è avvenuto con la lettura tardiva dei suoi libri e attraverso una corrispondenza con Louis Aithusser, autore di Per Marx. Da allora, questo personaggio e la sua opera non mi hanno più abbandonato. Marx mi ha affascinato per la precisione del pensiero, la forza della dialettica, la potenza del ragionamento, la lucidità dell'analisi, la ferocia delle critiche, lo humour degli strali, la chiarezza dei concetti. Sempre più spesso, nel corso delle mie ricerche, ho provato il bisogno di sapere cosa pensasse Marx del mercato, dei prezzi, della produzione, dello scambio, del potere, dell'ingiustizia, dell'alienazione, della merce, dell'antropologia, della musica, del tempo, della medicina, della fisica, della proprietà, dell'ebraismo e della Storia. Oggi, pur cosciente delle sue ambiguità e non condividendo quasi mai le conclusioni dei suoi epigoni, non esiste un tema sul quale mi sia impegnato senza chiedermi cosa ne avesse pensato Marx. E senza provare immenso interesse nel leggerlo.

Di questo ingegno prodigioso sono state scritte decine di migliaia di biografie, sempre agiografiche od ostili, quasi mai distaccate. Ogni sua riga ha suscitato centinaia di pagine di commenti rabbiosi o ammirati. Alcuni ne hanno fatto un avventuriero politico, un arrivista, un tiranno nella vita privata, un parassita sociale. Altri hanno visto in lui un profeta, un extraterrestre, il primo dei grandi economisti, il padre delle scienze sociali, della Nuova Storia, dell'antropologia e anche della psicoanalisi. Altri ancora, infine, sono giunti a vedere in lui l'ultimo filosofo cristiano. Oggi che il comunismo sembra essere stato cancellato per sempre dalla faccia della terra e che le sue idee non sono più posta in gioco di potere, diventa finalmente possibile parlarne con serenità, serietà e profitto.

E’ dunque arrivato il momento di raccontare senza ipocrisie, in modo moderno, il suo incredibile destino e la sua straordinaria traiettoria intellettuale e politica. Di capire come abbia potuto scrivere, neanche trentenne, il testo politico più letto di tutta la storia dell'umanità. Di analizzare il suo singolare rapporto col denaro, il lavoro, le donne. Di scoprire così l'eccezionale panflettista che è stato. E allo stesso tempo di reinterpretare questo XIX secolo di cui siamo i diretti eredi, fatto di violenze e lutti, di disperazione e di massacri, di dittature e di oppressione, di miseria e di epidemie, così estraneo ai luccichii del romanticismo, al gusto del romanzo borghese, ai fregi dell'Opera e ai retroscena della Belle Epoque.” (pp. 7-10)

2.

Come aveva anticipato Derrida, e come un anno dopo ho scritto io stesso, la fine del comunismo sovietico non poteva non produrre una riapertura del discorso su Marx. Il crollo del muro di Berlino, sprigionando gli spiriti animali del capitalismo che, in un quindicennio, hanno portato il mondo intero sull’orlo di una catastrofe sistemica, ha paradossalmente confermato, con centocinquanta anni di ritardo, l’assoluta fondatezza della critica marxiana del liberismo.

Ciò detto, sarebbe ingenuo, però, non considerare che il recupero del pensiero di Marx implica fare i conti con un’opera che, se riconosce il suo aspetto più specifico nella critica dell’economia politica, ha un intento che trascende l’economia stessa e si pone come un’interpretazione globale della storia e del destino dell’uomo. Analizzando il mondo così com’è, Marx fa insistentemente riferimento al mondo così come dovrebbe essere. Anche se egli non illustra adeguatamente le modalità politiche ed economiche del passaggio dalla realtà esistente, fortemente contrassegnata dall’alienazione capitalistica, al Comunismo (che, nella sua accezione, è semplicemente il superamento di tale alienazione), è evidente che il suo pensiero è filosoficamente, sociologicamente, scientificamente, antropologicamente totalizzante, è una visione del mondo a tal punto articolata che il confronto con esso implica una presa di posizione, vale a dire un’interpretazione.

L’interpretazione di Attali non poteva non essere un tentativo di integrare Marx nella sua ideologia di socialista liberale o meglio liberal-socialista. L’articolo di Massimiliano Panarari posto a conclusione del libro sottolinea questo dato con una certa finezza. Lo riporto integralmente:

“Negli ultimi decenni, qualche potenza della storia (la Nemesi?) ha voluto riservare a Karl Marx e al suo pensiero un destino analogo a quello dello spettro del comunismo ‑ anche se l'ermeneutica di quella frase, uno degli incipit più celebri della storia della letteratura contemporanea, ci dice, come ricorda l'autore del volume che avete tra le mani, che siamo in presenza di una certa forzatura semantica; ben poca, a dire il vero, al confronto di un'eredità, quella dei marxismi, che è una lunga e ininterrotta sequela di interpretazioni interessate e travisamenti, talora in buona fede, il più delle volte in malafede, con conseguenze che hanno segnato drammaticamente il Novecento.

Occorreva, dunque, un intellettuale brillante, acuto, non di rado spregiudicato, e sicuramente non di fede marxisteggiante, per riportare all'onore della discussione e delle cronache culturali una delle figure più straordinarie del pensiero contemporaneo, consegnata troppo frettolosamente dallo stridulo coro monocorde dei laudatores temporis acti all'oblio e all'ignominia. Insomma (di nuovo la Nemesi storica?), ci voleva un liberale (per la precisione, un social‑liberale) per mettere in luce quanto le scienze sociali e la sinistra di ogni orientamento ‑ risultino debitrici di Marx, una volta liberato dalla patina adorante dei suoi troppo entusiasti ammiratori e, soprattutto, dalle incrostazioni plumbee di molti suoi opportunistici (e criminali) pseudoepigoni.

Jacques Attali, dunque per usare il linguaggio diretto, franco e senza troppi giri di parole che gli piace parecchio ‑, ha scritto il libro che serve a evitare di buttare il bambino con l'acqua sporca, alla faccia di tanti revisionisti cialtroneschi e d'accatto che da molto, troppo tempo ripetono il falso mantra di un Marx, non si capisce il perché, con le mani grondanti di sangue.

Nel corso di questi ultimissimi anni si è assistito a un ritorno di attenzione, popolato di singoli (e molto distinti) episodi e libri (da Jacques Derrida a Salvatore Veca), nei riguardi dell'eroe eponimo del marxismo, i quali hanno sottolineato momenti e aspetti del suo pensiero all'insegna di un'ottica tipicamente teoretica. Il libro di Attali, intellettuale versatile "politico" potremmo dire in un'accezione globale e lato sensu, sicuramente non filosofico, si propone, invece, un obiettivo diverso: quello di reintegrare il genio di Treviri nel dibattito civile e pubblico. E anche, si parva licet, vista l'estrazione e le caratteristiche di Attali, quello di riportarlo nella chiacchiera intelligente di circoli e salotti della République des lettres, quella sua nazionale, innanzitutto, come pure quella dei paesi in cui il libro è uscito o uscirà. Per mettere in circolo, giustappunto, discutere, parlare di una figura ingiustamente sepolta e archiviata con accuse il più delle volte immeritate e semplicistiche.

Ecco, quindi, che, accanto al Marx naturale e genetico riferimento del pensiero antagonista (da Toni Negri a Slavoj Zižek), troviamo in questo libro un Marx per molti versi, come definirlo?, "liberale" ‑nell'accezione estremamente estensiva e allargata (e comunque senza trascurare la dovuta e cospicua dose di virgolette) dei nostri tempi.

Attali è uomo intellettualmente onesto e non vuole annettere ‑ all'insegna di una di quelle operazioni manipolatorie che lasciano il tempo che trovano e producono solamente distorsioni ed equivoci ‑ il filosofo di Treviri tout court al proprio campo, il "socialismo liberale". Troppo facile, e decisamente disdicevole; nonché, nella psicologia di Attali, forse pure non abbastanza challenging. Molte delle teorizzazioni di Marx vengono, difatti, rigettate e avversate dall'autore, che gli riconosce, tuttavia, senza alcuna esitazione, quel carattere raro e singolare che etichetta con l'espressione "spirito del mondo", una condizione "magica" e uno "stato di grazia", in virtù dei quali le contraddizioni diventano spesso intuizioni grandiose e preveggenti. E alcune di queste intuizioni, per l'appunto, non possono non venire riconosciute e amate da coloro che vedono nel liberalismo una delle proprie matrici culturali ‑ in modo speculare all'atteggiamento dell'autore del Manifesto del partito comunista che continuerà per tutta la propria esistenza a riconoscere alla borghesia quella natura rivoluzionaria che aveva consentito alla Storia di rimettersi finalmente in moto dopo l'eterna e impraticabile palude dell'Ancien Régime.

Per un identikit dell'autore

È un, amore profondo e abbastanza resistente all'usura del tempo, a quanto pare, quello sbocciato, ormai da alcuni anni, nei confronti di Marx da parte della sinistra liberale e moderata francese. Alcuni esponenti della gauche libérale, e persino anche qualcuno degli eredi della deuxième gauche (anticomunista e antitotalitaria), paiono stravedere da qualche tempo a questa parte per un Karl Marx di cui viene messo tra parentesi il messaggio messianico, per apprezzarne le indiscutibili qualità di scienziato sociale, osservatore lucido e profetico della modernità, giornalista di razza e filosofo coltissimo.

Ci aveva inizialmente pensato, in terra americana, il primo quotidiano del villaggio globale, il «New York Times», che, nel 1997, aveva definito il démodé Karl alla stregua del "prossimo grande pensatore", un po' the next big thing, per usare la terminologia cool che piace tanto ai giornalismo anglofono. Successivamente era arrivato Alain Minc, il cantore della "globalizzazione felice" - enarca, alto dirigente del Ministero delle Finanze, uomo assai ascoltato dal patronat e dall'imprenditoria francesi, intellettuale molto presente sui media ‑ che nel suo Les prophètes du bonheur (Parigi, Grasset, 2004) ci proponeva un filosofo di Treviri apostolo del libero scambio e innamorato del cosmopolitismo, oggetto di odio istantaneo da parte dei reazionari, alfieri del vecchio ordine.

E’ ora è il momento di uno dei campioni di questa cultura. Jacques Attali rappresenta, infatti, il prototipo di questo gruppo ‑ non di rado inviso ‑ partorito dal travagliato e iperscisso arcipelago della sinistra francese. Vale a dire la pattuglia o, meglio ancora, date le loro frequentazioni culturali e le loro "strizzate d'occhio" al mondo anglosassone, il network degli esponenti del socialisme liberal; una rete composita e, a sua volta, tutt'altro che omogenea, in cui ritroviamo, tra gli altri, il capostipite François Furet, Dominique Strauss‑Kahn, per molti versi Alain Touraine, Jean Daniel, Jacques Julliard e il sistema mediatico-giornalistico emanazione del «Nouvel Observateur» (nei quale si collocano varie firme di «Le Monde» e alcune di «Libération»), Pierre Rosanvallon e gli intellettuali che si raccolsero intorno alla Fondation Saint‑Simon e che, da qualche tempo, collaborano coi suo atelier intellectuel La République des idées. Un gruppo che annoverava anche, prima della sua repentina conversione a sinistra in occasione del "no" alla bozza di Trattato costituzionale europeo, Laurent Fabius. Con l'ombra di un "grande vecchio" alle spalle: ad accomunare i percorsi, variabili, di alcuni di loro c'è spesso la figura, decisiva e imprescindibile anche per la biografia di Attali, di François Mitterrand.

Liquidati come tecnocrati ‑ aspetto che contraddistingue sicuramente le loro traiettorie di prodotti di quella tradizione tipicamente francese che coincide con le Grandes écoles ‑; accusati di simpatie per Blair e il blairismo, detestati da Bourdieu e dai suoi allievi e sodali ‑ Serge Halimi (nel Grande balzo all'indietro, Roma, Fazi, 2006) ne fa il bersaglio privilegiato dei propri strali polemici e delle proprie invettive ‑ quali esponenti della "Terza via alla francese" e della "borghesia modernista"; ritenuti compiacenti fiancheggiatori dello status quo e pacificati corifei dell'ordine neoliberista indistinguibili dai nouveaux réactionnaires ‑ effettivamente non immuni (anche se ogni eccessiva generalizzazione è indebita...) da una certa (non sapremmo trovare un'altra espressione) "alterigia", derivante da stili di vita, consumi e abitudini alto‑borghesi (la Francia, laboratorio impareggiabile del conflitto sociale, è paese che le divisioni di classe, reinventate secondo forme nuove dalla mondialisation, le ha fortemente iscritte nel' più disparati, dalla scienza ai giornalismo, dallo show‑business alla codice genetico.

Pronti qualche volta, va riconosciuto, a inserirsi con uneccessiva disinvoltura nel rizoma a maglie larghe del neoliberalismo (anche se gli anatemi della sinistra radicale al riguardo rimangono eccessivamente virulenti e debitori, non da ultimo di inimicizie e trascorsi personalistici).

Ma, soprattutto, e questo ci pare il loro merito essenziale, disponibili a rischiare e a mettersi in navigazione nel mare aperto (e periglioso) del nuovo, non trincerandosi nelle sicurezze immutabili di cui la sinistra radicale francese (che ancora oggi, tanto per fare un esempio, pullula di trotzkisti...) ha sempre disperato bisogno.

Coraggiosamente modernisti e riformisti, dunque, in un paese che ha sempre dispensato con fastidio la patente di riformismo, associandola a scomuniche di vario genere.

Jacques Attali (1943, Algeri; con un fratello gemello, Bernard, che è stato PDG-président/directeur général di Air France), economista, scrittore, alto funzionario della burocrazia dell'Esagono e grand commis, "consigliere del principe", saggista, polemista e penna di vaglia ‑ in una parola, un "intellettuale modernista e mediatico", come dicono con astio i bourdivins (connotazioni alle quali, nel suo caso, invece, si deve attribuire a nostro avviso una valenza assai positiva) ‑ costituisce l'emblema del social‑liberale. Disponendo, tra l'altro, di un curriculum vitae da fare invidia: docteur d'Etat en Sciences Economiques, diplomato dell'Ecole Polytechnique, dell'Ecole Nationale Supérieure des Mines, delI'Institut d'Etudes Politiques e della celebre ENA (l'Ecole Nationale d'Administration), la fucina della tecnocrazia transalpina. Un universo tipicamente parigino, dunque, fondato sulla meritocrazia (ancora esistente, in questi casi, checché se ne dica) e, necessariamente, sui réseaux relazionali e amicali di alto bordo.

A ventisette anni, Attali entra nel Conséil d'Etat e, contemporaneamente, inizia una carriera di docente di scienze economiche presso vari istituti d'eccellenza (Ecole Polytechnique, Ecole des Ponts et Chaussées) e presso l'Università di Paris IX‑Dauphine. Ma la sua consacrazione a Mazarino intellettuale e spin doctor ante litteram avviene nel corso del decennio (maggio 1981‑aprile 1991) durante il quale affiancherà, in qualità di "consigliere speciale", "Re Sole" François Mitterrand, l'ultima reincarnazione (non più moderna e non ancora postmoderna) della monarchia assoluta francese, cui lo accomuna anche la passione per la bibliofilia. Attali arriva all'Eliseo fornito di una cospicua agenda di contatti ‑ da Delors a Barre, da Michel Serres a Coluche ‑ il "bene primario " e l'elemento essenziale del fare politica in quella che si sta configurando vieppiù come la "Società delle reti", per dirla à la Castells. Si tratta di un autentico talento naturale nel "fare network", attività di cui aveva già dato prova in passato, agli esordi della propria carriera accademica; una "qualità" che non tralascerà mai (e che gli varrà accuse e attacchi, come logico), fondata sull'idea di raggruppare e far interagire i "primi della classe" provenienti dal settori più disparati, dalla scienza al giornalismo, dallo show-business alla business-community.

Presso la presidenza della République, svolge dunque un ruolo al tempo stesso antichissimo - il "consigliere del principe" - e nuovissimo, con la volontà di rincorrere, inseguire e, laddove possibile, intercettare i segnali della postmodernità incipiente (la prima edizione della Condition postmoderne, scritta guarda caso proprio da un francese, Jean-François Lyotard, su incarico del governo francofono del Quebec, e uscita per Les Editions de Minuit, data al 1979); il tutto mentre si compie in il tutto mentre si compie in maniera irrevocabile il commiato dalla modernità, avvertito con angoscia e sofferenza dal presidente socialista che si sente figlio della grande civiltà umanistica e borghese europea.

Alla corte del "monarca repubblicano" (cui dedicherà il volume C'était François Mitterrand, Parigi, Fayard, 2005), Attali porta con sé qualche vecchio compagno di studi, come Main Boublil e Jean‑Louis Bianco (che aveva frequentato con lui e con Laurent Fabius il Lycée Janson‑de‑Sailly nella capitale francese), e vi introduce alcuni giovani enarchi vocati successivamente a un grande futuro (la coppia François Hollande e Ségolène Royal). Si fa alfiere delle politiche di rigore in economia: è l'avvento di quella stagione delle compatibilità che segnerà, in modo indelebile, il regno mitterrandiano cominciato all'insegna di speranze quasi rivoluzionarie (oltre che, certamente, palingenetiche) e di un programma frontista nettamente di gauche, per poi ritrovarsi costretto allo scontro ‑ e alla sopravvivenza ‑ con le forze del mercato scatenate e con la propagazione del neoliberismo quale pensée unique. Un frangente ulteriore destinato a segnare l'autunno dell'eterno scontento transalpino, con il compiersi dell'ascesa dell'American way of life e della Weltanschauung anglosassone a paradigmi‑calamita, oggetti del desiderio (non più deleuziano evidentemente) e arbitri delle esistenze del resto del pianeta.

Il cosiddetto "tradimento" di Mitterrand diventerà così uno degli elementi costitutivi della memoria recente della gauche rouge e dell'ultragauche, le quali identificano nel "consigliere speciale" una sorta di commissario degli ambienti finanziari e una delle "anime nere" che spostarono l'equilibrio politico dei mandati presidenziali. Tutto discutibile naturalmente, salvo il fatto che la durezza delle battaglie che scuotono le varie parrocchie e tribù della sinistra francese, in primo luogo parigina, trova in quell'epoca storica la propria "scena primigenia" e il debutto di divergenze totali di vedute e di visione, di incomprensioni e rivalità destinate a sfociare nell'incomunicabilità più assoluta che divide da tempo le componenti radicali da quelle moderate e riformiste. (Un copione, peraltro, sempre più consueto in tutte le nazioni d'Occidente).

Nel gabinetto mitterrandiano, Attali si concentra sulla redazione di note orientative, dall'economia alla cultura alla politica, come pure di valutazioni e giudizi sull'ultimo libro letto o sullo spettacolo più recente a cui ha assistito. Ma assume anche incarichi organizzativi di rilievo: suo sarà il ruolo di sherpa ed esploratore per Monsieur le Président in occasione dei summit del G7, e sempre a lui Mitterrand affiderà la megamacchina organizzativa per le celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese nel 1989. Nell'84, invece, assecondando una propensione (innanzitutto culturale) assai spiccata per tutto ciò che è high‑tech, l'autore di questo volume contribuisce a predisporre Eureka, il programma europeo per lo sviluppo delle nuove tecnologie da cui è scaturito, tra i vari output, anche il ben noto mp3.

Attali lascia in coincidenza con il secondo settennato di Mitterrand (1990), e si dedica alla realizzazione di una nuova, discussa, avventura. Tra il '91 e il '93 diventa presidente ed è tra i fondatori della European Bank for Reconstruction and Development (EBRD; o altrimenti detto, alla francese, Banque Européenne pour la Reconstruction et le Développement), con sede a Londra, volta a promuovere, all'indomani della caduta del Muro di Berlino, gli investimenti nei paesi dell'Est e dell'ex impero sovietico (un periodo e una gestione che lo vedranno soggetto a parecchi attacchi da parte della stampa).

Più recentemente, ha patrocinato Evene.fr, il sito, ampiamente fruito dal pubblico, di notizie culturali. Dispone di un sito web ufficiale (www.attali.com), con adeguato contorno di colonna sonora di musica classica (la sua passione in primis, Schubert). Ha fondato Action contre la faim, e ha svolto attività di consulente per le Nazioni Unite in materia di contenimento della proliferazione nucleare. Negli ultimi tempi, ha dato vita a uno studio di consulenza (Attali et Associés), che utilizza naturalmente a piene mani anche il patrimonio relazionale e il "capitale sociale" accumulato dal suo primo partner nel corso della propria lunga esperienza professionale, e nel 1998 ha fondato PlaNet Finance (del cui consiglio di amministrazine è presidente), un'organizzazione internazionale no profit con la finalità, di con trastare la povertà e di assistere e incentivare il microcredito nel Terzo Mondo.

Ad oggi sono oltre ottomila le "banche dei poveri" beneficiate dalle iniziative di sostegno e supporto ‑ dalla progettazione dei siti web alla formazione del personale che vi opera, sino alla costituzione di archivi informativi e di una specie di "università virtuale" da cui possono attingere notizie e consigli di PlaNet Finance; un aspetto filantropico che rimanda alla personalità "americana" di Attali (e dei social‑liberali in generale). Il nostro autore, infatti, persegue un'idea di "capitalismo illuminato", nel quale compaiono come pietre miliari le donazioni da parte dei detentori delle grandi fortune, l'attenzione all'etica, la fiducia negli USA quale luogo di "praterie mentali" sconfinate e di possibilità di successo sconosciute alla neo-corporativa Europa, la centralità dell'high‑tech e di una tipologia di economia cognitiva ed estremamente flessibile compendiabile nella formula della new economy. E, difatti, l'ONG ha figliato PlaNet Fund, un fondo d'investimento etico interamente consacrato alla microfinance, che si appoggia sul gruppo bancario Dexia. Insomma, parole e opere (e opere che sanno sempre come fondere morale e innovazione economica). Etica sì, in grado di tramutarsi in business ethics.

Gli Stati Uniti, sterminati, colmi di spazi enormi e di potenzialità altrettanto vaste, in una parola "bulimici", offrono anche una facile metafora per captare e descrivere il carattere di Attali. "Bulimico" nella lettura, lo è anche nella scrittura. A partire dal '73, sono oltre una quarantina i volumi che compongono la sua impressionante bibliografia, composta di titoli consacrati ad argomenti disparatissimi. Saggi di storia, politica, economia; memorie (Verbatim); romanzi (Nouv'Elles, Au‑delà de nulle part, La Vie éternelle); pièce teatrali (Les Portes du ciel), e persino racconti per l'infanzia, altrettante testimonianze di una personalità indiscutibilmente onnivora ed estremamente curiosa. E articoli: principalmente per «Le Monde» e per il settimanale «L'Express» di cui è opinionista; del resto, l'intervento sulla stampa pare una delle modalità espressive e contenutistiche maggiormente confacenti al nostro, per il mix di rapidità, brillantezza, focalizzazione di un'idea e capacità di sintesi che contraddistingue questa formula di scrittura.

Attali et Associés e PlaNetFinance rappresentano due soggetti economici tipicamente postindustriali e postmoderni, all'insegna di quella caratteristica "evoluzione" (o "involuzione") consulenziale e "modello Terzo Settore" che manda in bestia i discepoli di Bourdieu e la gauche rouge; Attali, insomma, è un intellettuale che sembra uscire direttamente dalle pagine di un libro di Pierre Lévy, compiutamente rizomatico, pur senza naturalmente condividere l'impronta politica della Parigi post-strutturalista che inventò il rizoma e anticipò, con sofferenza, il mondo narrativizzato e postmoderno allora agli albori.

Dunque, una personalità intellettualmente (e anche geograficamente, oltre le colonne d'Ercole del "modello gallicano" e al di là della torre eburnea dell'Esagono e della francofonia) nomade, in tutto e per tutto, alquanto insofferente alle famiglie e alle tradizioni politico‑culturali in cui si è cristallizzata la sinistra francese. Un battitore libero (e, talvolta, un free rider); un individuo refrattario agli intruppamenti e alle bandiere nel paese patria del monismo e dello Stato.

Di qui, probabilmente, anche l'attrazione che esercitano su di lui le grandi personalità. Nella sua visione delle trasformazioni e dei processi storici a giocare un ruolo determinante sono precisamente le figure epocali, titaniche, che la muovono, la plasmano, la orientano ‑un'attitudine poco "annalistica" e, al tempo stesso, molto événementielle e alquanto "postidealistica". Ecco, quindi, alcuni anni dopo quello su Pascal (Blaise Pascal ou le géniefrancais, Parigi, Fayard, 2000), giungere questo volume, dedicato al prometeico (o, se si preferisce, faustiano) Marx, o dello "spirito del mondo", come recita il sottotitolo.

Un Marx nei confronti del quale Attali non nasconde un'aria decisamente simpatetica (con qualche piccola identificazione narcisistica, ci vien da supporre, considerando il personaggio...). Un Marx della complessità e un nomade dell'intelligenza e dello spirito, assolutamente in sintonia con la figura archetipica che Attali sta divulgando nella sua ultima produzione (Chemins de sagesse. Traité du lahyrinthe, Parigi, Fayard, 1996 e L'homme nomade, Parigi, Fayard, 2003; tradotti in italiano da Spirali), suscitando discussione e dibattito da par suo. Un nomadismo che è da intendersi qui come amore sviscerato per le contaminazioni e che, nel caso dell'autore, trova, una volta di più, un chiaro penchant autobiografico e un'evidente esperienza e attitudini cosmopolite. Affine e condivisa con quella di un'élite planetaria sempre più oggetto di indagini e analisi. E di stigmatizzazioni, come quella di Zygmunt Bauman, che inizia uno dei suoi ultimi libri (Vita liquida, Roma‑Bari, Laterza, 2006) proprio dalla concezione attaliana, specchio, a suo giudizio, dell'inaccettabile e inegualitaria società della "modernità liquida".

Bauman vede negli individui descritti dal nostro una pletora di edonisti ed egoisti, che si muovono con nonchalance in un orizzonte indefinitamente aperto di potenzialità (precluse alla common people costretta a vivere solamente i drammi e le esclusioni della precarietà‑flessibilità), pronti a coglierle e respingerle all'insegna di uno stile di vita usa e getta. Leggerezza, volatilità, assenza di radici e di radicamento, consumismo sfrenato (rispetto agli oggetti come agli affetti, nei confronti delle cose come delle persone), poligamia (o "poliamore", come ha scritto in un articolo pubblicato sul «Corriere della sera» il 13 settembre 2005, con la dose di provocazione e trasgressione che lo contraddistingue), abitudine a surfare sulla propria esistenza e su quelle altrui e a "galleggiare" al meglio delle possibilità perché dotati, come rimarca Attali, dell'atout fondamentale per vivere bene nella beckiana Risikogesellschaft: la "conoscenza delle leggi del labirinto" (e, dunque, il know‑how necessario a far funzionare i processi dell'economia immateriale e cognitiva).

Ma, dimentica Bauman, il "giacobino" Attali, progressista autentico e non bisognoso di patentini di fede gauchiste, vede nei nomadi le avanguardie di una società futura ispirata a una "democrazia fraterna e planetaria", come scrive in Fraternités (Parigi, Fayard, 1999), capace di raccogliere le eredità più avanzate delle filosofie e delle ideologie del passato alla ricerca di una sintesi inedita (naturalmente sempre aperta e in progress), nella quale trovino adeguato spazio anche i nuovi diritti, da quelli all'infanzia e all'ospitalità a quelli delle generazioni future. Ecco il punto, il salto in avanti: Attali mette in opera lo sforzo di pensare quanto più fattivamente possibile l'epoca del postfordismo e della smaterializzazione di un'economia già industrialista che ai tempi di Marx era fatta di fabbriche e popolata di "armate" sfruttate di proletari di riserva.

Un'economia pesante, come la siderurgia di Josif Stalin e Mao Zedong, che non poteva competere con i processi produttivi delle nazioni liberal-capitalistiche. E che, insiste Attali, in verità, ben poco ha a che spartire con le riflessioni sull'economia dell'ipersofferto Capitale (il quale assume l'andamento di un grande romanzo otto‑novecentesco intriso di umori goticheggianti, simbolisti e addirittura pre‑dark), con la speculazione sull'alienazione o, ancora, con la condivisione della tematica dell'ozio creativo elaborata a partire dai suoi scritti dal genero Paul Lafargue. Come pure con il "socialismo elettrico" ‑ solo in parte compreso e attuato da Lenin con la sua formula del "potere dei soviet più l'elettricità", molto più ossessionato dalla illiberale dittatura del proletariato (che Marx concepiva in tutt'altro modo, nettamente democratico) ‑ ossia la straordinaria fascinazione di Karl nei riguardi delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecniche della sua epoca (dagli studi sulla termodinamica agli esperimenti di Marcel Deprez che effettua il primo trasferimento di elettricità a grande distanza mediante linee ad alta tensione), giudicate infinitamente più rivoluzionarie di certi sommovimenti o decisioni politiche. Tutto maledettamente poco, o per nulla, industrialista. O, meglio, incredibilmente anticipatore rispetto all'età degli industrialismi e degli imperialismi, che solamente un genio visionario (questo è il Marx di Attali, egli stesso decisamente incline alla visionarietà) poteva concepire nella sua ricerca stocastica e mai lineare sul sapere e i saperi.

I neo‑nomadi, funzionari dell'economia postindustriale, "commessi viaggiatori" della globalizzazione (l'equivalente di quelli che erano i "commissari del popolo" dei vari regimi richiamatisi al comunismo), risultano vincenti in quanto possessori delle chiavi di questa labirintica network society. Il "labirinto" è un altro dei paradigmi prediletti di Attali. E’ l'allegoria e l'icona che ritiene migliore per descrivere l'età di Internet, preferendola all'immagine delle "autostrade dell'informazione" (anch'essa un po' troppo fordista per i suoi gusti, ci pare di capire...). Dopo il passaggio alla modernità che aveva trovato la metafora d'elezione nella progressiva e inarrestabile linea diritta (nel tempo, come nello spazio), sembra ritornato il momento, ci avverte, della forma‑labirinto, riattualizzata dalle figure del nomade virtuale (che viaggia col pensiero) e del nomade di lusso (che può permettersi di accedere ai vari piaceri inventati dall'età della leggerezza postmoderna e che orienterà in via definitiva, tra non molto, gli stili di vita delle classi medie). E labirintico è, per l'appunto, l'opus marxiano in cui Attali si avventura, facendo da guida al lettore...

I mancati spettri di Marx. Un Marx antimarxista

Nonostante Eric j. Hobsbawm abbia tenuto in vita e alimentato come pochi altri la fiammella marxista ‑ e altri intellettuali radical di grido, da Noam Chomsky a Immanuel Wallerstein, continuassero ad avvalersi delle tesi del filosofo di Treviri ‑ Marx pareva scomparso fino a non molto tempo or sono dallo scenario culturale dell'Europa continentale. Sotto i colpi dell'inarrestabile e violentissima vulgata neoliberista e per la gioia di molti suoi propagandisti sedicenti liberali e, ancor più, sedicenti intellettuali, il pensiero di Marx era stato semplicemente tolto di mezzo. Veniva coltivato in seno a qualche conventicola di ortodossi, omaggiato da formazioni politiche naturalmente rispettabili e, in alcuni casi, ampiamente radicate, ma necessariamente minoritarie, e sembrava sostanzialmente confinato, da un punto di vista culturale, a quelle autentiche ridotte anti-pensiero unico rappresentate da certi campus statunitensi, dove Marx diveniva uno dei riferimenti di un radicalism che mixa e rifrulla femminismo, lacanismo, gender issues, black atlantic, cultural e post‑colonial studies, Cornel West e Toni Negri.

Occorreva allora, probabilmente, un europeo bianco, benestante e social‑liberale per riportare in auge Marx, depurandolo di molte scorie accumulatesi nel corso dell'ultimo secolo e mezzo, mediante uno strumento "tradizionale" e canonico quale una biografia difatti e idee che ha venduto moltissimo nella Francia in prolungata crisi di identità e nella Spagna in movimento governata dai turbo-socialisti di Zapatero.

Una biografia estremamente dettagliata, che si dedica al compito "decostruttivo" di mostrare come il pensiero marxiano sia stato travisato e piegato a esigenze di singoli, gruppi e camarille all’insegna di azioni e visioni che mai il grande filosofo (ed economista, scienziato sociale, giornalista e chi più ne ha più ne metta, nella sua eccezionalità...) aveva concepito. A partire da Engels, passando per Bernstein e Kautsky, sino a giungere agli agghiaccianti massacri e ai genocidi del socialismo reale e del comunismo realizzato, Marx viene piegato e violentato per giustificare imprese che nulla hanno a che fare con le sue idee e i suoi testi.

Beninteso, Attali non fa sconti (non si spiega, per esempio, come Marx abbia finito, di fatto, per lasciar morire i propri figli pur di non doversi sottoporre mai a un lavoro salariato), ma il suo sforzo di oggettività (alla fine "simpatetica") ci porta a riconsiderare con grande interesse e a fare giustizia di tutta una serie di luoghi comuni, pregiudizi e falsità, riconsegnandolo al suo orizzonte di genio e figura tragica. Un recupero della pluralità degli "spiriti" di Marx e del marxismo, lontano dall'ortodossia omologante e unitaria che lo ha frainteso e snaturato nei periodi successivi, che, paradossalmente, accomuna il libro di Attali a quello di un altro illustre "franco-algerino" ma culturalmente agli antipodi, come il filosofo della decostruzione e della différance, Jacques Derrida, autore degli Spettri di Marx (Milano, Cortina, 1994).

Il Marx ritratto da Attali è un inequivocabile avversario teoretico e ontologico della "linea totalitaria Hegel‑Bismarck-Lassalle-Lenin-Hitier".

Pur tra mille ripensamenti e revisioni, non considera affatto il socialismo quale legge naturale di tendenza deterministicamente destinata ad affermarsi e a costituire lo stadio futuro dell'umanità ‑ sarà Engels, in realtà, il padre putativo e il responsabile di quell'attributo "scientifico" che gli verrà accostato in seguito. Non ha mai sostenuto l'idea del socialismo in un solo paese, né tanto meno una sua versione dittatoriale e imperniata sul partito unico, dichiarando anzi l'indispensabilità quasi pre-politica delle libertà borghesi e individuali. Ha riconosciuto con chiarezza e, a tratti, entusiasticamente la forza di emancipazione del capitalismo, e la sua opera si configura ‑ nell'estrema complessità e, a volte, ambiguità che la contraddistingue‑ come un elogio convinto del libero scambio e della modernizzazione. E’ l'uomo che ha pensato la mondializzazione ante litteram. E’ stato uno straordinario giornalista (che scriveva articoli e una column settimanale sul «New York Daily Tribune», il quotidiano statunitense da duecentomila copie, dove si occupava di India, Cina, vicende politiche del mondo e tematiche economiche globali), e un eccezionale pamphiettista. Anzi, nella velocità e negli scritti d'occasione ‑ tale è il Manifesto del partito comunista ‑ dava il meglio di sé, assai più che nelle tormentate e tribolatissime opere maggiori dalle quali faticava a separarsi a causa del suo inesauribile perfezionismo.

Senza alcun dubbio e davvero, Marx è stato un intellettuale global cui toccò in sorte di vivere su un pianeta, come evidenzia Attali, che appare per molti (e stupefacenti) versi simile al nostro, dominato sotto il profilo demografico dall'Asia e sotto quello economico e commerciale dagli anglosassoni. Ovviamente, non un liberale nei termini ottocenteschi, anche se esprime, come noto, a più riprese e in più occasioni, il proprio rispetto e, a tratti, persino la propria ammirazione nei confronti di questa ideologia politica. Ma, certamente, e a dispetto dei propri emuli traditori, un amante della libertà che combatte con le straordinarie armi della sua intelligenza contro l'alienazione e per la liberazione dell'umanità dalle catene.

Il Marx d'après Attali è un Marx tutt'altro che sacrale; al contrario, è un individuo umano, troppo umano. E, al medesimo tempo, è un Leonardo della contemporaneità, pervaso dal desiderio quasi rinascimentale di padroneggiare la propria epoca nella sua globalità, divorato dall'ambizione enciclopedica che fu dell'Illuminismo settecentesco e creatore di un pensiero, il comunismo, che assume su di sé il compito ‑ sia pur fallito, come lo strumento che vi era preposto, l'Internazionale ‑ di una sorta di global governance nel nome della giustizia sociale e dell'emancipazione.”

3.

Il taglio interpretativo liberale del saggio si può ricavare dall’insieme di citazioni seguenti (selezionate dalla dott.ssa Lisa Cecchi, che ringrazio per la collaborazione):

“Legge anche Proudhon, questo autodidatta del Giura, figlio di un bottaio in rovina, tipografo e correttore di bozze tra una borsa di studio e l’altra, che ha appena pubblicato Che cos’è la proprietà?, opera nella quale scrive: «Cinquemila anni di proprietà lo dimostrano: la proprietà è il suicidio della società» , e dove propone di creare delle cooperative in cui tutti gli operai siano proprietari dei mezzi di produzione e scelgano i propri capi. E’ questo il momento in cui Karl Marx pensa che l’economia sia il fondamento di tutte le altre scienze sociali. E che niente possa sfuggire alle sue leggi come pure a quelle del materialismo. Abbandona così l’utopia comunista per il socialismo scientifico. Nel novembre 1842 scrive sulla «Rheinische Zeitung» : «Lo spirito che costruisce i sistemi filosofici nella testa dei filosofi è la stesso che costruisce le ferrovie con le mai degli operai». Ormai, pensa persino che sia in essere una logica materialista per la quale l’arte, la filosofia e il diritto dipendono dalle strutture socioeconomiche della proprietà”. (pp. 45-46)

“Durante quell’estate [1844] in cui si trova da solo a Parigi, per chiarire i concetti raccoglie in un manoscritto non destinato alla pubblicazione (e che verrà dato alle stampe solo nel 1932 nell’Unione Sovietica di Stalin con il titolo di Manoscritti del 1844) le sue prime idee sulla filosofia e sull’economia. Si tratta di un saggio a uso personale, da cui l’autore non intende separarsi. Alcuni vorranno vedervi il “vero Marx” e lo useranno per dimostrare che Karl Marx non ha nulla a che vedere con le mostruosità commesse più tardi in suo nome. Altri criticheranno questo testo, «superato e contraddetto» secondo loro, dalle sue opere successive, rimproverando a quanti pretendono di ritrovarvi il pensiero autentico di Marx di cercarvi «il teschio di Voltaire bambino». Questo testo fondamentale costituisce, infatti, una tappa essenziale nella formazione di un pensiero che evolverà ininterrottamente senza mai contraddirsi e che conserverà sempre alle sue fondamenta il duplice principio qui posto: l’uomo deve essere il centro di ogni riflessione e dell’azione politica; nessuna rivoluzione vale la vita di un uomo, dato che la sua finalità è quella di liberarlo”. (p. 64)

“Marx continua a riflettere sulla società che potrebbe porre fine a questa alienazione, e definisce il "comunismo" come un sistema sociale in grado di permettere la disalienazione, la riappropriazione delle cose, la liberazione del piacere e del lavoro attraverso la libera associazione dei produttori. «Il comunismo [... è] reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo». Descritto anche così: «La soppressione della proprietà privata rappresenta quindi la completa emancipazione di tutti i sensi [...]; è un'emancipazione siffatta appunto perché questi sensi [...] sono diventati umani [...]. Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua mera utilità, dal momento che l'utile è diventato l'utile umano». Il lavoratore alienato trova allora, secondo Marx, il proprio piacere nel lavoro, producendo ciò che è utile ad altri, e ciascuno diviene pienamente umano: «Soltanto attraverso l'intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell'essere umano, viene in parte educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell'uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma». «L'occhio umano gode in modo diverso dall'occhio rozzo, inumano, [...] ecc. [...]. I sensi dell'uomo sociale sono diversi da quelli dell’uomo non sociale». Individualità e collettività possono quindi mescolarsi in una natura umana trascendente: «L'essenza ontologica della passione umana diviene tanto nella sua totalità quanto nella sua umanità». Si ha così la fine della solitudine, e persino la vittoria sulla morte: «La morte [...] è una dura vittoria della specie sull'individuo», mentre «il comunismo [...] è la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo». Questo comunismo messianico si realizzerà grazie al ruolo della Storia e non solo a quello della politica. E può essere instaurato solo alla fine della Storia, non al suo posto”. (pp. 67-68)

“Straordinario mese questo gennaio 1848, nel corso del quale produrrà ben tre delle sue opere maggiori. Tre testi che accetta di divulgare, i primi due perché si tratta di discorsi, l'ultimo perché non porta la sua firma. Marx riprende dunque i dodici punti elencati l'anno precedente da Engels, li condensa in dieci e scrive la prima esposizione completa dei materialismo storico, e anche il primo testo in cui il proletariato appare come una classe condannata a "pauperizzarsi", come si disse all’epoca, una classe "radicalmente spogliata dalle illusioni": il Manifesto del partito comunista. Questo scritto, che viene da uno sconosciuto filosofo tedesco di neanche trent'anni rifugiato a Bruxelles, diventerà il testo non religioso più diffuso fino ai nostri giorni.

Secondo numerosi biografi di Marx, il Manifesto segnerebbe una rottura con i precedenti scritti di Marx, in quanto qui si leggerebbe la rinuncia all'individualismo dei Manoscritti del 1844 e dell’Ideologia tedesca. Sempre a tal proposito alcuni parlano di un «antiumanesimo teorico» . Niente di tutto ciò: in continuità con i testi precedenti il Manifesto avanza verso una concezione più completa del materialismo, nel quale la lotta di classe è il motore principale della Storia, e il proletariato il creatore in cammino di una società nuova. È l'inizio del socialismo scientifico, e il passaggio all'azione politica, per la conquista del potere”. (p. 90)

“Nel giro di qualche giorno Marx redige quindi insieme a Engels il suo primo concreto programma politico, allo scopo di definire ciò che potrebbe costituire una piattaforma comune con la borghesia: Rivendicazioni del partito comunista in Germania. Il primo articolo dichiara la proclamazione della Germania intera in «repubblica una e indivisibile», e la borghesia decide di farlo suo, così come l'indennità versata ai deputati. Invece, come Marx aveva previsto, non vuole assolutamente sentir parlare delle altre proposizioni: un'imposta progressiva sulle rendite, l'istruzione gratuita, la statalizzazione dei mezzi di trasporto e la creazione di una banca centrale. E anche a questo proposito, contrariamente a quanto verrà detto in seguito, Marx non è favorevole alla statalizzazione completa dei mezzi di produzione, soprattutto in un paese in cui il capitalismo non è pienamente sviluppato.

Alla fine di aprile, come Marx aveva previsto, il centro liberale vince le elezioni. Il 18 maggio 1848 il Parlamento apre solennemente i lavori nella chiesa di San Paolo a Francoforte. Questo il suo doppio obiettivo: redigere una Costituzione e mettere in piedi un governo.

Nello stesso momento, come ha già fatto a due riprese, Marx fonda un giornale a Colonia, città del suo debutto come giornalista. Questa volta si tratta di un quotidiano: la «Neue Rheinische Zeitung». A questo giornale, scrive Karl, «si poteva dare solo una bandiera, quella della democrazia, che mettesse in evidenza in ogni occasione il carattere specificamente proletario che non poteva ancora inalberare». Fedele alla sua idea di un'alleanza tra democratici liberali e socialisti contro ogni forma di dittatura, cerca dei finanziatori tra i liberali. Con successo: Ludolf Camphausen, ricco industriale, e David Justus Hansemann, presidente della Camera di Commercio della città, diventano i suoi finanziatori”. (p. 98)

“Per tutta la vita ormai, Marx sarà ossessionato dalla questione contadina, allora così importante visto il numero degli abitanti delle campagne, ma così difficile da integrare nel suo modello di capitalismo, in ragione della sua ideologia e della natura stessa del lavoro che vi si svolge. Secondo lui, tuttavia, senza un'alleanza di classe di questo genere, Luigi Napoleone Bonaparte cercherà sicuramente di prolungare il suo soggiorno all'Eliseo, dove si è appena insediato e da dove governa in modo sempre più autoritario.

Nel secondo e nel terzo articolo Karl dà allora un nuovo nome a questa alleanza tra tutte le vittime del capitale, che considera l'alleanza dei suoi sogni. Utilizza questo nome per la prima volta: "dittatura del proletariato". Fino a questo momento aveva invocato una sola volta, in una lettera dell'anno precedente, la "dittatura provvisoria", transizione necessaria verso la democrazia. Questa dittatura è un genere particolare, perché, nella sua visione, si adatta perfettamente alle istituzioni della democrazia parlamentare, in virtù del fatto che l'alleanza di classe che si augura prenda il potere è maggioritaria. La parola "dittatura" che Marx utilizza, e che si presterà a tante interpretazioni erronee, ha un solo significato: questa ampia maggioranza non dovrà esitare a governare secondo i propri interessi, senza compromessi. Lo preciserà tempo dopo in circostanze drammatiche.

I quattro numeri della «Neue Rheinische Zeitung» non suscitano alcuna eco. La rivista vende poco: in Germania la sua distribuzione è assicurata solo grazie a qualche sparuto libraio (sicuramente sorvegliato dalla polizia) e a delle sottoscrizioni molto care, mentre a Londra l'acquistano in pochi, perché Karl, come sua abitudine, litiga con diversi proscritti, dissuadendo molti di loro dal leggerla. Non è certo in questo modo che riuscirà a trovare di che provvedere ai bisogni della famiglia e a far conoscere le sue idee.

In alcuni discorsi pronunciati davanti agli ultimi superstiti della Lega dei Comunisti riprende il tema di questi articoli, e così anche nel marzo del 1850, in un testo intitolato pomposamente Indirizzo al Comitato Centrale della Lega dei Comunisti. Per la prima volta, evoca l'idea di una "evoluzione-rivoluzione", di una "rivoluzione permanente" che dovrebbe essere mondiale, guidata da "partiti" che rappresentano gli operai, descritti come distinti dai partiti borghesi. Per la prima volta, insiste sulla necessità di creare un partito autonomo, utile alla classe operaia per vincere le elezioni: «Il partito del proletariato deve differenziarsi dai democratici piccolo-borghesi che vogliono concludere la rivoluzione il prima possibile [...], e deve rendere la rivoluzione permanente fino a quando tutte le classi più o meno possidenti saranno cacciate dal potere [...] in tutti i principali paesi del mondo [...]. Invece di abbassarsi ancora una volta a fare da sostegno ai democratici borghesi, gli operai e soprattutto la Lega dovranno lavorare alla costruzione di un'organizzazione distinta, segreta e pubblica, il partito operaio, e fare di ogni Comune il centro l’anima dei raggruppamenti operai, in cui la posizione e gli interessi del proletariato siano discussi indipendentemente dalle influenze borghesi».

A partire da questo momento Marx non smetterà più di parlare di questo "partito" come di una entità, anche se non esiste ancora. Un partito universale, presente dovunque, che riunisce tutti i combattenti per la libertà: il partito-mondo dello spirito del mondo. Marx spiegherà poi perché ha bisogno di brandire questo concetto per cristallizzare le aspirazioni e l'azione di tutti, per fare in modo che venticinque anni dopo diventi realtà. È come se avesse voluto creare la realtà usando le parole: con la forza dello spirito. Molti lo considereranno un mitomane che si è inventato un potere, dei discepoli, delle organizzazioni al suo servizio. Nei fatti, queste ultime per la maggior parte diventeranno delle realtà molto diverse da quelle che Marx aveva immaginato e descritto.

La sua strategia (o piuttosto, il suo sogno?) è così definita: far sorgere dappertutto dei partiti che rappresentino gli operai, ma dei partiti che operino alla luce del sole, non clandestini, e inserirsi, laddove possibile, nei giochi democratici. La sua riflessione è chiaramente planetaria e poco importa se lui è costretto a vivere a Londra: «Io sono un cittadino del mondo e lavoro dove mi trovo», dirà”. (pp. 113-114)

“Le condizioni necessarie alla transizione dal capitalismo al comunismo non gli sembrano in sé un soggetto di studio urgente. Secondo lui, queste dipenderanno dalle circostanze economiche e politiche, e dunque dal momento e dal luogo. Non possono dunque essere oggetto di una teoria generale. Marx dice soltanto che si accederà a questa società ideale con "un salto" dal "regno della necessità" al "regno della libertà" che ora chiama "dittatura rivoluzionaria del proletariato", senza però precisarne il contenuto, se non affermando, come fece negli articoli sulla rivoluzione del 1848, che bisognerà, laddove possibile, utilizzare le istituzioni democratiche per assicurare il potere della maggioranza attraverso il gioco dei partiti. Su questo punto, come su molti altri, non cambierà mai opinione, nonostante le tragedie politiche e personali che dovrà attraversare: giornalista prima di tutto, la libertà di pensiero gli sembra il più sacro dei diritti, per lui la democrazia parlamentare deve essere protetta a qualunque costo, anche se la maggioranza della società non possiede la maggioranza politica. Nello stesso tempo, del resto, si fa pubblico avvocato di due aspetti essenziali della democrazia liberale: la libertà di stampa e l'indipendenza della giustizia”. (p. 132)

“E per contrastare francesi e tedeschi che vorrebbero accontentarsi di un programma che predicasse il sistema delle cooperative, Marx ne fa l'apologia, ridicolizzandola con una formula terribile: le cooperative manifatturiere «hanno provato che la produzione su larga scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna può venire esercitata senza l'esistenza di una classe di padroni che impieghi quella dei manovali. [...] Nel medesimo tempo, l'esperienza del periodo dal 1848 al 1864 ha provato, al di sopra di ogni dubbio, che il lavoro cooperativo, per quanto eccellente sia in pratica, limitato in una stretta cerchia di sforzi parziali di operai isolati, non è in grado di arrestare il progresso geometrico del monopolio, non è in grado di emancipare le masse e neppure è capace di alleviare in modo sensibile il fardello della loro miseria. [...] Proprio per questo la conquista del potere politico è divenuto il grande dovere della classe operaia». In altre parole, il movimento cooperativo è un baluardo ridicolo contro il capitalismo, e non è possibile controllare l'economia se non con la politica.

Il testo dell'indirizzo prosegue spiegando che le modalità della presa del potere differiscono secondo le tradizioni nazionali, e che dunque bisogna dar prova - come i sindacati inglesi hanno ben compreso - di pragmatismo, e non precipitarsi in inutili azioni clamorose. Nessuna traccia di «dittatura del proletariato» o di ricette pronte”. (p. 182)

“Proprio lì [Amburgo] riceverà le prime bozze del Capitale, e le modificherà fino alla fine dell'aprile 1867.

Parla col medico dei suoi foruncoli, che Kugelmann imputa alla sua cattiva alimentazione del passato, ma accennano anche a un avvenimento significativo: Liebknecht e Bebel sono appena stati eletti deputati al Reichstag. Sono i primi parlamentari comunisti del mondo, anche se mimetizzati dietro un partito appena riformista. Decisamente, la via della rivoluzione è inutile, pensa Marx. L'avvento della dittatura del proletariato in Germania può passare attraverso le urne. Ma a condizione che Bismarck non utilizzi la guerra contro la Francia per rafforzare ancora il suo potere...” (p. 205)

“Il 3 luglio [1871], rispondendo a un'ulteriore serie di domande postegli da un altro giornale americano, il «New York World», Marx dichiara: «La borghesia inglese si è sempre dimostrata pronta ad accettare il verdetto della maggioranza fin quando le elezioni gliene hanno assicurato il monopolio. Ma state pur certo che si ripeterebbe qui un'altra guerra di Secessione se si trovasse in minoranza su questioni per lei di vitale importanza». Quando il giornalista gli chiede quali forme, democratiche o violente, debba assumere la conquista del potere, Marx risponde che la rivoluzione è inutile in democrazia. E che per altro tutto dipende da ciò che decide la classe operaia, ed essa soltanto, del paese considerato: «In Inghilterra, per esempio, la strada che conduce al potere politico è aperta anche alla classe operaia. Un'insurrezione sarebbe folle dove con l'agitazione pacifica è possibile ottenere tutto in modo rapido e sicuro. La Francia possiede un centinaio di leggi repressive e vi è un estremo antagonismo tra le classi, per cui la soluzione violenta della guerra civile sembra essere necessaria.. La scelta della soluzione riguarda la classe operaia di quel paese». Tempo dopo, ben pochi sostenitori di Marx terranno a mente che, dove possibile, lui aveva raccomandato di utilizzare la strada democratica per conquistare il potere. E’ vero, però, che mai ha detto che questo potere dovesse essere restituito se perduto attraverso le urne”. (pp. 227-228)

“L'Internazionale si sta disgregando. All'epoca ha solo 385 membri, di cui 254 in Inghilterra. Il segretario generale è sempre il vecchio Georg Eccarius, pagato quindici scellini alla settimana, ma nemmeno regolarmente. Così, per sopravvivere, si fa pagare dalla stampa delle informazioni sulle attività dell'organizzazione, suscitando l'indignazione generale. Dal momento che non è ancora possibile riunire un congresso, l'8 settembre Karl convoca a Londra una "conferenza preparatoria". Si allea con i blanquisti e propone, come ha detto poco tempo prima ai giornalisti americani, di uscire dalla clandestinità e, in tutti i paesi in cui ciò si riveli possibile, di sostituire alle società segrete, tanto care agli anarchici, dei "partiti comunisti" che dovranno tentare di impadronirsi del potere. In particolare, ingiunge ai jurassiens, e cioè a Bakunin, di rientrare nei ranghi. I dirigenti dell'Internazionale accettano questa nuova asserzione del rispetto della legalità e del rifiuto della rivoluzione violenta in democrazia.

La socialdemocrazia è nata. Questa riunione di Londra rimarrà nella storia come il momento in cui, per iniziativa di Marx e controcorrente, il movimento socialista sceglie con chiarezza la strada parlamentare, anche se ancora non viene detto con altrettanta chiarezza che il potere acquisito attraverso le urne può anche essere perso attraverso le urne”. (p. 229)

“Sembra che Karl abbia raggiunto il suo scopo. Ha cinquantaquattro anni. Mentre in Europa risuona ancora il fragore della Comune, d'improvviso, è divenuto celebre in tutto il mondo. Considerato dai giornali come onnipotente, è alla testa dell'unica organizzazione politica internazionale. In Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti e Russia, vedono la luce partiti e gruppi segreti che si rifanno a lui. Il suo ultimo Indirizzo all'Internazionale, scritto sul finire della Comune, è stato ripreso da tutta la stampa occidentale, e i giornalisti del mondo intero si precipitano a intervistarlo. Il Manifesto del partito comunista, letto da centinaia di migliaia di operai e di studenti tedeschi, viene tradotto in francese, russo e inglese. E lo stesso vale per il suo libro cardine, Il capitale, che comincia ad attirare lo sguardo di universitari, uomini politici, rivoluzionari. Finalmente dispone di entrate sufficienti per vivere e far vivere decorosamente la moglie e le figlie, con le quali forma una famiglia molto unita, contrariamente a tutte le dicerie in circolazione.

Tuttavia, non è né felice né sereno. Malato, soffre a volte le pene dell’inferno, e non si è mai ripreso dalla perdita dei suoi tre figli. Sorvegliato, spiato, tormentato da avversari che provengono sia dalla destra che dal proprio campo, subissato dalle critiche e dalle calunnie di una stampa che parla di lui come se fosse il diavolo, consapevole delle lacune della sua opera e delle difficoltà che incontrerà per perfezionarla, cosciente che l'interesse che per essa viene dimostrato si spiega solo con il suo personale ascendente politico, denigrato dall'università tedesca di cui avrebbe tanto voluto far parte, e intuendo che il capitalismo, combinato con lo Stato assistenziale, potrebbe rivelarsi in grado di migliorare molto il livello di vita degli operai per indurli a rigettare il comunismo, è tentato di mollare tutto, in preda a una sorta di suicidio intellettuale, politico e fisico. E’ stanco di tutto. Esattamente come qualche anno prima lo era stato un altro grande osservatore del suo tempo dalle opinioni molto diverse dalle sue, Alexis de Tocqueville, stanco di «scambiare poi per riva dei fiumi ingannevoli [e di] domandarsi spesso se questa terra ferma che cerchiamo da così tanto tempo esista davvero, o se il nostro destino non sia forse quello di andare eternamente per mare»”. (pp. 232-233)

“Fin dall’inizio del congresso, seguito da alcuni giornalisti, Bakunin chiede l’annullamento delle decisioni prese durante la riunione di Londra dell’anno precedente, che raccomandavano ai membri dell'Internazionale di seguire la strada democratica. Per Bakunin è solo la rivoluzione ad avere un senso, dovunque questa scoppi. L'anarchico russo propone così ancora una volta di togliere al consiglio generale il grosso delle sue prerogative per affidarle alle federazioni nazionali. Marx, di rimando, accusa Bakunin di fare dell'"entrismo" nell'Internazionale, allo scopo di rovesciare «i rappresentanti legittimi dei lavoratori in seno al consiglio generale». Si arriva al voto dopo tre giorni di aspre discussioni. Sostenuto dagli ultimi dirigenti comunardi arrivati da Londra, Franckel e Vaillant, inizialmente Karl ottiene la conferma della dottrina decisa a Londra. La conquista del potere si farà seguendo la via parlamentare ovunque possibile. Bisogna dunque costituirsi in partito e partecipare alle elezioni con la propria bandiera, senza fare alleanze con i partiti borghesi o liberali. L'articolo 7 dello statuto dell'Internazionale viene così modificato: «Nella lotta contro il potere collettivo delle classi possidenti, il proletariato non può agire come classe se non costituendosi esso stesso in partito politico distinto, opposto a tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti». Le prerogative del consiglio generale vengono inoltre mantenute, ma gli anarchici non si ritirano e fanno arenare il dibattito in una serie di interminabili discussioni procedurali”. (pp. 238-239)

“Per lui, un buon programma comune dovrebbe rafforzare la protezione dei commercianti, degli artigiani, dei contadini e degli operai contro gli industriali e i grandi proprietari terrieri. Dovrebbe anche accelerare l'industrializzazione del paese per permettere l'ampliamento del lavoro salariato e accompagnarlo con il miglioramento della protezione sociale. E, anche se «il divieto generale del lavoro dei fanciulli è inconciliabile con l'esistenza della grande industria, e perciò un vano, pio desiderio», bisognerà impartire a tutti i bambini del popolo l'istruzione gratuita, perché «un legame tempestivo di lavoro produttivo e istruzione è uno dei più potenti mezzi di trasformazione della società odierna».

Inoltre, aggiunge, i comunisti non accetterebbero un programma che non conducesse alla scomparsa dello Stato. Se lui per primo ha tanto combattuto gli anarchici, non è perché questi pretendono di farla finita con lo Stato, ma proprio perché non ne offrono i mezzi e perché nel loro programma parlano solo della conquista del potere.

Infine, un simile programma deve inscriversi, ai suoi occhi, in un'azione in tre fasi, che riprende dal suo terzo Indirizzo scritto proprio all'indomani della Comune. Sopprime la fase liminare menzionata in quell'Indirizzo, quella della presa del potere mediante una rivoluzione, perché in Germania ormai la sinistra può sperare di accedere democraticamente a ruoli di responsabilità.

Nella prima fase del suo programma, una volta conquistato democraticamente il potere attraverso le urne, il Partito Socialista dovrà rispettare il "diritto uguale per tutti" che riposa sull'uguaglianza degli individui («A ciascuno secondo il suo lavoro»). Perché questa fase non conduca a un imborghesimento - come pensa accadrebbe con l'applicazione del programma comune definito a Gotha - deve lasciare rapidamente il posto a una seconda fase, che miri a dotare il proletariato dei mezzi per non perdere le elezioni successive.

Questa seconda fase, la «dittatura del proletariato», deve estendere ampiamente l'alleanza maggioritaria. Per questo deve organizzare - permanendo nel quadro della democrazia parlamentare - la completa trasformazione degli stessi rapporti di produzione, e in particolare la fine della «subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico». Per riuscirci, lo Stato deve agire in modo risoluto, senza rimettere in causa né la libertà individuale, né la libertà di stampa, né la separazione dei poteri, né la designazione dei dirigenti con elezioni libere e multipartitiche.

Durante questo periodo, la maggioranza parlamentare ha il potere legittimo di rimettere in causa la legislazione esistente per passare da «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!». Scrive: «Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. A esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere che la "dittatura rivoluzionaria del proletariato"». Questa dittatura deve creare uno Stato decentrato, trasparente, che agisce alla luce del sole, senza la censura della stampa e senza burocrazia, senza partito unico e senza nomine gerarchiche, senza esercito permanente, con giudici eletti, e senza «organi meramente repressivi». Questo Stato sarà quindi in via di estinzione, ma resterà capace di difendersi contro i nemici. Punto molto importante: per Marx la dittatura del proletariato non deve rimettere in discussione le libertà individuali, ma deve organizzare la scomparsa degli organi repressivi dello Stato. Siamo ben lontani dal significato che in seguito Lenin darà dopo di lui a tale concetto.

A suo giudizio, solo la Comune di Parigi ha tentato un'esperienza simile, ma non ha saputo organizzare la propria difesa né mettere gli strumenti di produzione al servizio dei lavoratori.

Nella terza fase del programma, una volta scomparso lo Stato repressivo, si instaura la società comunista priva di classi e di divisione del lavoro. I cittadini sono allora liberi di lavorare come preferiscono, di sviluppare le proprie capacità nel rispetto di quelle altrui. Dispongono dei beni di consumo secondo il loro bisogno, senza essere sottomessi a un'ideologia o a una morale religiosa. Le imprese sono di proprietà collettiva, ma non necessariamente dello Stato.

Marx non precisa le condizioni della transizione da una fase all'altra del suo programma, né cosa debba succedere se una maggioranza di elettori rifiutasse questa transizione e reclamasse il ritorno all'ordine precedente. E non precisa meglio la natura dello Stato sotto la dittatura del proletariato, né cosa ne resti nella società comunista, né il modo in cui debba essere gestita la proprietà collettiva delle imprese nella società ideale. Scrive: «Quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altre parole: quali funzioni sociali rimarranno ancora in vita, che siano analoghe alle attuali funzioni dello Stato? A questo interrogativo si può rispondere solo scientificamente». E aggiunge che i comunisti, per il momento, non devono occuparsi «del futuro Stato della società comunista». Quest'ultima è un obiettivo troppo lontano per riguardare la generazione attuale.

Termina con una formula latina, come spesso ama fare. Questa volta sono cinque parole, a proposito delle quali verranno scritte migliaia di pagine: dixit et salvavi animam meam ('dissi, e salvai la mia anima').

Quindici anni più tardi, in una lettera a Bebel, uno dei destinatari di questa critica, Engels confermerà che Marx con quelle parole voleva dire di aver scritto quel testo «per salvare la sua coscienza, senza sperare di convincere». Come se rinunciasse definitivamente a vedere arrivare la rivoluzione dalla Germania, dove l'aveva tanto auspicata. Come se con un ritto di penna cancellasse definitivamente i suoi sogni di gioventù. Come se l'idea di «salvare la sua anima» lo riconducesse alla religione di sua madre, al Dio astratto di suo padre e di sua figlia”. (pp.249-251)

“All'inizio di maggio del 1880, Jules Guesde si reca a Londra e incontra Marx, Longuet e Lafargue. Guesde interroga Karl sul carattere "marxista" del programma al quale lavora per le successive elezioni legislative. Marx protesta, lui ha elaborato una scienza, non una setta. «Quello che è certo è che io, io non sono marxista!», dice. Lo aiuta a redigere gli statuti del partito che definisce l’'"autentico partito operaio". Scrive anche un preambolo per il programma elettorale dei francesi. È opportuno citarlo per esteso, visto che si tratta dell'ultimo testo politico di Marx, che sembra fare eco al Manifesto, elaborato trentadue anni prima:

Considerando,

che l'emancipazione della classe produttrice è l'emancipazione di tutti gli esseri umani senza distinzione di sesso o razza; che i produttori possono essere liberi solo quando sono in possesso dei mezzi di produzione (terra, officine, navi, banche); che esistono solo due forme in cui i mezzi di produzione possano appartenergli: 1) La forma individuale, mai esistita a livello generalizzato ed eliminata in modo crescente dal progresso industriale; 2) La forma collettiva, i cui elementi materiali ed intellettuali sono costituiti dallo stesso sviluppo della società capitalista. Considerando, che tale appropriazione collettiva può svilupparsi solo attraverso l'azione rivoluzionaria della classe produttiva - o proletariato - organizzato in un distinto partito politico; che tale organizzazione deve essere perseguita con tutti i mezzi che il proletariato ha a sua disposizione, incluso il suffragio universale, il quale verrà trasformato, dallo strumento di inganno che è stato finora, in strumento d'emancipazione. Gli operai socialisti francesi, adottando come obiettivo dei loro sforzi l'espropriazione economica e politica della classe capitalista e la restituzione alla comunità di tutti i mezzi di produzione, hanno deciso, come strumento d'organizzazione e di lotta, di partecipare alle elezioni con le seguenti richieste immediate.

E’ definitivo, il socialismo non può giungere che dalle urne”. (pp. 259-260)

“La democrazia parlamentare consentirà di far nascere e di far sviluppare la coscienza politica del proletariato, necessaria per l'avvento della rivoluzione e il passaggio al comunismo. Tutte le rivoluzioni brutali, come il Terrore, sono utili solo alla borghesia. «In Inghilterra, per esempio, la strada che conduce al potere politico è aperta anche alla classe operaia. Un' insurrezione sarebbe folle dove con l'agitazione pacifica è possibile ottenere tutto in modo rapido e sicuro».

Una volta conquistato il potere per via democratica, occorre che la maggioranza la conservi, grazie alla "dittatura del proletariato", che si compendia nell'utilizzo dei mezzi della democrazia vizio della maggioranza per «distruggere l'apparato repressivo», mantenendo le libertà individuali, la separazione dei poteri e la libertà di stampa. Nei paesi in cui non esistono né democrazia né capitalismo, in Russia in particolare, nessuna rivoluzione comunista potrebbe riuscire se contemporaneamente non prende avvio una rivoluzione mondiale: «Se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l'odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un'evoluzione comunista».

Perché una tale presa di coscienza da parte delle classi operaie abbia luogo, è necessario che si organizzino dei partiti che li rappresentino, che si presentino alle elezioni e le vincano. Possono riuscirci anche se l'ideologia dominante è quella dei padroni dell'economia, perché l'azione e il pensiero umani non sono prigionieri delle strutture economiche. Come possono esistere delle opere d'arte libere, senza nessun legame con i rapporti di forza economici, così può esistere anche un libero pensiero politico. Gli oppressi possono ribellarsi aprendosi a una "coscienza di classe". Sono gli individui a fare la Storia, non le masse.

Una volta scomparso lo Stato, si insedierà il comunismo. Tutti saranno liberi di utilizzare il proprio tempo come preferiscono e i beni saranno disponibili in abbondanza e gratuitamente, dal momento che i mezzi di produzione apparterranno alla collettività. Il comunismo non sarà quindi una società definita una volta per tutte, ma un "movimento" incessante verso una libertà individuale senza fine, da conquistare e da inventare, in modo che ciascuno possa realizzare tutte le proprie aspirazioni: per esempio, «in una società comunista non ci saranno più pittori, ma tutt'al più persone che, tra le altre cose, si dedicheranno alla pittura». Libertà e uguaglianza diverranno compatibili grazie all'uguaglianza reale e non più teorica dei diritti e delle libertà individuali.

Il comunismo può sussistere solo in una dimensione mondiale, una rivoluzione non potrebbe avere un successo duraturo in un solo paese, perché «il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza "storica universale"». Marx fa così del "socialismo" una nuova parusia planetaria dove l'uomo si riconcilia con la sua opera, e accede all'eternità grazie alla sua classe che, conquistando il potere, si realizza negando se stessa.

Tutto quello che accadrà sta in questo temibile equivoco. Perché la dottrina di Marx nasconde abbastanza ambiguità da permettere molte interpretazioni. Come tutti quelli che lo hanno preceduto e seguito, Marx si sbaglia sulle date e sui tempi. A ogni nuova crisi si vede costretto a intercalare una fase supplementare tra l'inattesa espansione e l'inevitabile apocalisse. Non precisa neanche come misurare plusvalore e tasso di profitto. Non dice come, né per quanto tempo, il capitalismo potrà ritardare la stia crisi finale. Non spiega se, e come, la dittatura del proletariato possa essere reversibile, in altre parole ciò che avviene quando la maggioranza popolare - e nella parola popolare c'è qualche ambiguità - desidera interrompere il corso di una rivoluzione. Non dice niente nemmeno sulla natura della società comunista, né sul modo in cui avverrà l'appropriazione collettiva delle imprese, né riguardo al ruolo che giocherà lo Stato residuale, subordinando la risposta a queste domande all'analisi di ogni caso singolo. Per finire, ultima ambiguità, glorifica il lavoratore, pur considerando che, per natura e chiunque sia il proprietario, il lavoro costituisce in sé un'insopportabile alienazione.

E, del resto, il suo comportamento personale, in generale estremamente libertario, alle volte si rivela distante anni luce dal suo ideale. Prima di tutto giornalista, considera la libertà di pensiero - e quindi la democrazia parlamentare in cui questa si sviluppa pienamente - come il più sacro dei diritti. Per tutta la vita sceglie di privilegiare la libertà, di confrontare le sue idee con i fatti, di rifiutare che la sua dottrina diventi rigida, che se ne faccia un'ideologia. Ed è cosciente dei propri errori. Ma, lui che scommette sulla bontà dell'Uomo e che vuole affidargli le chiavi di una società libera, sa mostrarsi sprezzante e di «un'arroganza offensiva e insopportabile». Così, lancia invettive (come nella Miseria della filosofia), esclude (come nella Circolare contro Kriege), lancia anatemi (come nella Sacra famiglia). Insulta i suoi compagni, come August von Willich. Rinuncia, per conflitto ideologico, a delle amicizie (con Otto Bauer, Moses Hess e Arnold Ruge). Arriva persino a condurre inchieste poliziesche sui suoi nemici (come Bakunin e Lord Palmerston). Lascia morire nella miseria i sua figli, senza fare nulla per guadagnarsi meglio da vivere.

Inserisce deliberatamente la sua teoria nella lotta, concependo e costruendo la sua vita come un vai e vieni continuo tra l'azione, che lo appassiona, e la scrittura, che lo rende impaziente, e facendo dell'economie politica uno strumento di rivolta degli indigenti, degli oppressi, degli offesi. È un materialista che crede nella forza dello spirito, un filosofo per il quale l'economia sta alla base della Storia, e ai cui occhi l'azione viene prima della storia; è un pessimista che ha fiducia nell'uomo. Presto, altri caricatureranno la sua teoria per metterla in pratica, provando a scimmiottare il suo comportamento.

Questi altri sono: Engels, che inventerà il concetto di partito d'avanguardia, Kautsky, che deformerà la teoria economica di Marx, Lenin, che importerà il marxismo in Russia come strategia di occidentalizzazione di un paese arretrato, Stalin, che farà della dittatura del proletariato una dittatura esercitata sul proletariato dopo la liquidazione delle altre classi.

La loro azione si svolge in quattro diversi scenari: la Gran Bretagna, che di Marx conserverà soltanto la pratica socialdemocratica, senza il vocabolario; la Francia, che di lui conserverà solo il vocabolario, senza la pratica politica; la Germania e la Russia, che porranno in vita due caricature del suo progetto. La Germania opterà per un totalitarismo nazionale contro l'internazionalismo comunista, la Russia rimpiazzerà un totalitarismo nazionale con un altro, invocando le parole d'ordine dell'internazionalismo. Entrambe eredi di Bismarck e di Hegel (ossia della dittatura prussiana) ben più che di Marx (ossia della Renania e della Rivoluzione francese). Per costruire lo strumento per la conquista del potere dello Stato, di cui Marx diffidava fin dalla giovinezza, questi epigoni dovranno riscrivere la sua biografia, e poi epurare la sua opera per farla corrispondere alla caricatura di cui hanno bisogno. Dovranno infine tentare di innalzare i propri scritti allo stesso livello dei suoi, per arrogarsi il diritto di esprimersi in suo nome”. (pp. 272-275)

“L'anno successivo (1884), Eleanor lascia, col suo compagno Edward Aveling e gli scrittori William Morris e Samuel Butler, la Federazione Democratica di Henry Hyndman, che diventa la Federazione Socialdemocratica. Loro fondano invece la Lega Socialista. Nello stesso momento, viene creato con George Bernard Shaw un altro movimento socialista inglese, la Società Fabiana, dal nome del generale romano Fabius, detto Cunctator ("il Temporeggiatore"), per via del suo rifiuto di qualsiasi battaglia frontale con Annibale. All'epoca esistono tre correnti di sinistra in Inghilterra, e tutte si ispirano a Marx: socialdemocratica, socialista e fabiana. Questa Società Fabiana, che predica l'"impregnamento" della società da parte delle idee marxiste senza rivoluzione, vent'anni dopo darà i natali all'attuale Partito Laburista”. (p. 276)

“Nel 1894, Engels fa pubblicare il Libro III del Capitale, che ripercorre le tesi esposte in precedenza e che ha preparato con Bernstein. Nella prefazione, ripresa da quella del Libro II, precisa: «Il II e il III Libro del Capitale, come Marx mi disse più volte, dovevano essere dedicati a sua moglie», e in un'altra prefazione ancora aggiunge: «Si noterà che, in tutti questi scritti, e particolarmente in quest'ultimo, io non mi qualifico mai come "socialdemocratico", ma come "comunista" [...]. Sia per Marx che per me è dunque assolutamente impossibile utilizzare un'espressione tanto elastica per designare la nostra personale concezione». La semplificazione di Marx è già all'opera. (p. 284)

“Dalla Finlandia, il 28 settembre Lenin scrive al comitato centrale del suo partito, rimasto a Pietrogrado, per chiedere che venga preparata segretamente l’insurrezione. Ossessionato dalle sorti della Comune – che ha retto per soli sessantadue giorni – e dalla lettura del terzo Indirizzo di Marx e del suo testo sul colpo di Stato di Napoleone III, sa che potrà riuscire a conquistare e conservare il potere solo se saprà stringere un’alleanza con i contadini. Ma, per lui, dittatura del proletariato vuole assolutamente dire dittatura duratura. Scrive allora una lettera al comitato centrale, testo base della Rivoluzione d’Ottobre, nella quale tenta di fondare una precisa analisi tattica dell’azione da condurre a partire da un’interpretazione alterata di Marx, a cui attribuisce un’apologia della rivoluzione a ogni costo (la rivoluzione «come un’arte»), che non figura in nessuno dei suoi testi”. (pp. 300-301)

Queste citazioni sono eloquenti e definiscono un’interpretazione alternativa dell’evoluzione del pensiero di Marx rispetto alla vulgata del marxismo ortodosso che lo ha cristallizzato nella gabbia delle leggi oggettive dell’evoluzione storico-dialettica e ha sancito la necessità di una rivoluzione violenta e dell’instaurazione della dittatura del proletariato come “levatrici” del passaggio al Comunismo.

Attali identifica i responsabili di quella cristallizzazione, che così profondamente ha pesato nella storia del Novecento, fino a produrre una presunta morte di Marx in seguito al crollo del “socialismo reale”, in Engels, Kautski, Lenin, Stalin, negli ideologi sovietici (Ždanov) e nei partiti comunisti occidentali che si sono assoggettati, sia pure con non lievi differenze, all’ortodossia sovietica, che ha sempre ricusato di riconoscere nel Marx giovanile dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il precursore di quello maturo e “scientifico” de Il capitale.

E’ senz’altro vero che, nella tradizione e nella propaganda sovietica, il riferimento alla successione Marx- Engels- Lenin-Stalin si è posto, sino ad Andropov, come un mantra.

L’avversione che Attali, però, manifesta nei confronti di Engels, che sarebbe stato il capofila dei traditori dell’autentico pensiero liberale di Marx, sembra eccessiva. Nelle citazioni seguenti (anch’esse raccolte dalla dott.ssa Lisa Cecchi), l’avversione è esplicita:

“Il 3 marzo, il re del Belgio, preoccupato di fronte a una simile agitazione, cede alle pressioni della Prussia e decide di cacciare dal regno i rifugiati tedeschi che hanno infranto la promessa di restare neutrali. Marx, in particolare, viene espulso dal Belgio, e così anche Engels, che racconta l’episodio nel suo stile già stereotipato: «Le autorità belghe se la presero con gli elementi più rivoluzionari dell’Associazione e, come ci si poteva aspettare, i democratici piccolo-borghesi belgi non seppero mettersi al comando delle masse belghe. In quelle condizioni l’attività dell’Associazione democratica si spense progressivamente, cessando completamente nel 1849»”. (p. 95)

“All’indomani del congresso [dell’Internazionale del 2 settembre 1867], Marx spiega a Engels che la permanenza del segretariato e del consiglio generale a Londra è essenziale per il suo potere. Engels approva: «Fintanto che il consiglio generale resta a Londra, tutte queste risoluzioni del congresso non sono che un pasticcio senza capo né coda». È il primo scambio tra i due in cui Engels sembra ammettere l’importanza dell’Internazionale, tre anni dopo la sua creazione. Coloro che più tardi hanno voluto fare di Engels il pari di Marx hanno occultato quest’assenza di Engels dalla nascita del movimento operaio”. (p. 206)

“Presto, altri caricatureranno la sua teoria per metterla in pratica, provando a scimmiottare il suo comportamento.

Questi altri sono: Engels, che inventerà il concetto di partito d'avanguardia, Kautsky, che deformerà la teoria economica di Marx, Lenin, che importerà il marxismo in Russia come strategia di occidentalizzazione di un paese arretrato, Stalin, che farà della dittatura del proletariato una dittatura esercitata sul proletariato dopo la liquidazione delle altre classi”. (p. 274)

“I due uomini si mettono immediatamente al lavoro e alla fine dell’anno pubblicano il Libro II del Capitale presso Otto Meissner. La prefazione di Engels è già menzognera: «Fu proprio Marx ad aver scoperto per primo la grande legge dell’evoluzione storica, la legge secondo la quale tutte le lotte della storia,si svolgano sul terreno politico, religioso, filosofico, o su un altro terreno ideologico, in realtà non sono altro che l’espressione più o meno chiara di lotte fra classi sociali» - mentre Marx ha sempre specificato che le idee e le arti erano escluse dalla lotta di classe. Poi la seconda menzogna: «Questa legge, […] ha per la storia la stessa importanza che per le scienze naturali la legge della trasformazione dell’energia». Il “marxismo” diventa così, sotto la sua penna, una verità indiscutibile, mentre per Marx la teoria sociale è una scienza aperta, un “movimento” al servizio della politica, che deve farsi da parte di fronte ad essa”. (p. 277)

“Engels è tutto preso dalla preparazione della sua rivincita sul passato: i partiti socialisti sono stati legalizzati e lui intende creare l’Internazionale e assumere il ruolo che Marx occupava senza lui nella prima”. (p. 280)

In realtà, se un’accusa può essere rivolta ad Engels, essa va letteralmente rovesciata. Engels è rimasto a tal punto abbagliato dalla grandezza di Marx, che ha sempre onestamente riconosciuto, da essere stato indotto, dopo la sua fine, a rimanere troppo fedele alla lettera del Maestro- Amico, tradendone casomai lo spirito. Ciò nonostante, Engels, come Marx, era un libertario. Il riferimento nei suo scritti al partito di avanguardia era solo un modo per rivendicare il primato del Comunismo, inteso a rovesciare il capitalismo, rispetto alla Social-democrazia, che già alla sua epoca inclinava verso un progetto riformista. Egli, insomma. è rimasto fedele alla Critica al Programma di Gotha: anche in questo caso, fedele alla lettera più che allo spirito di Marx, sicuramente indignato dal riformismo, ma altrettanto sicuramente incline ad un’indipensabile alleanza tattica con esso per sconfiggere democraticamente la borghesia.

4.

Si può essere d’accordo o no con l’interpretazione social-liberale di Marx che fornisce Attali. Si tratta di una linea interpretativa legittima e, come si è visto, sufficientemente articolata e argomentata. Nella quarta lettura io stesso ho descritto il realismo politico di Marx che, se non dopo il ‘48, di sicuro verso la fine del decennio successivo ha cominciato a capire che la prospettiva rivoluzionaria era inagibile o difficilmente agibile e che il cambiamento sistemico avrebbe richiesto una lenta maturazione delle coscienze e una partecipazione dei partiti comunisti alla lotta democratica.

Per il marxismo, ormai, il problema non è se alimentare o no il sogno rivoluzionario, quanto piuttosto adattarlo alla realtà storica tenendo conto al tempo stesso che la classe proletaria esiste ancora ma non ha più lo spessore quantitativo e l’animosità conflittuale ottocentesca e che la sola presa di potere da parte di un partito comunista anche per via democratica (circostanza peraltro ormai puramente ipotetica) non avrebbe alcun impatto su di una popolazione occidentale profondamente impregnata dalla mentalità borghese.

Alla difficoltà di riformulare un progetto di transizione al Comunismo si associa però l’urgenza, che sta divenendo estrema, di un superamento del sistema capitalistico, il cui sviluppo, oltre a minacciare l’ambiente planetario, sta inducendo fenomeni sempre più diffusi di alienazione, di corruzione, di degradazione antropologica.

Il marxismo, almeno in Occidente, è politicamente e sociologicamente fuori gioco. Non si vede, però quale altro movimento teorico-pratico possa farsi carico della necessità di un cambiamento radicale del sistema capitalistico.

Le conclusioni cui giunge Attali sembrano farsi carico di questo problema. Egli scrive:

“Nel 1883, il mondo era pieno di promesse: si annunciava la democrazia, si disegnava la mondializzazione, esplodeva il progresso tecnico. Poi gli uomini hanno avuto paura dell'avvenire. Alcuni si sono allora serviti dell'opera del pensatore più universalista, dello spirito del mondo, come di un alibi per edificare barbare fortezze. Oggi, non solo l'esperienza dell'URSS, della Cambogia, della Cina, di Cuba e di molti altri l'ha screditato, ma i fondamenti stessi della sua teoria sembrano superati.

Non è più possibile definire le classi sociali, borghesia e proletariato non sono più due gruppi sociali contrapposti in modo assoluto, gli stessi lavoratori salariati sono divisi in gruppi con mille sfumature, e alcuni tra loro sono divenuti ormai azionisti. Le imprese sono gestite da quadri, che non ne sono i proprietari ma si appropriano di una parte del profitto. Gli innovatori e gli artisti assumono importanza economica. Accanto al denaro, diventa un capitale determinante anche il sapere, attraverso il quale passa una parte fondamentale del profitto. E impossibile misurare i costi di produzione di un oggetto con le ore di lavoro necessarie per produrlo. E, per finire, la misura del plusvalore è sempre più incerta.

Malgrado tutto, la teoria di Marx riacquista interamente il suo significato nel quadro della globalizzazione di oggi, che lui aveva previsto. Assistiamo all'esplosione del capitalismo, al rovesciamento delle società tradizionali, alla crescita dell'individualismo, alla pauperizzazione assoluta di un terzo del mondo, alla concentrazione del capitale, alla decolonizzazione, alla mercificazione, allo sviluppo della precarietà, al feticismo delle merci, alla creazione di ricchezza da parte della sola industria, alla proliferazione dell'industria finanziaria, che punta a premunirsi contro i rischi della precarietà. Tutto questo, Marx l'aveva previsto. Il costo del lavoro resta, come lui aveva indicato, la variabile chiave dell'economia. E il tasso di rendimento resta l'obiettivo principale. Per preservarlo e farlo crescere, i salari continuano ad aumentare meno velocemente della produttività, e lo Stato continua a farsi carico di una parte crescente delle spese sociali e della ricerca.

Domani - se la globalizzazione non sarà messa di nuovo in discussione - la garanzia della redditività del capitale non potrà passare attraverso una socializzazione mondiale delle perdite, mancando uno Stato mondiale. Passerà dunque per la riduzione del costo del lavoro, cioè per la delocalizzazione, lo smantellamento della protezione sociale e la sostituzione accelerata di alcuni servizi con dei prodotti industriali, al fine di ridurre il costo della riproduzione della forza lavoro. In altre parole, per l'automatizzazione dei servizi per il tempo libero, la salute e l'istruzione. Se in questo modo l'uomo diventa merce, alla fine come tale verrà donato, nonostante gli illusori argini giuridici che qualche paese si sforza di ergere. Nessuno potrà più voler essere altro che una merce. La tirannia del nuovo, iI feticismo del consumo di cui Marx ha tanto parlato, ritarderà allora - forse per sempre, grazie al fascino dello spettacolo indefinitamente rinnovato delle merci - l'avvento della rivoluzione, anch'essa diventata uno spettacolo, offerto da qualche terrorista al resto del mondo.

Quando avremo così esaurito la mercificazione dei rapporti sociali e utilizzato tutte le sue risorse, il capitalismo, se non avrà distrutto l'umanità, potrebbe aprire le porte a un socialismo mondiale. Per dirlo altrimenti, il) mercato potrebbe lasciare il posto alla fraternità. Per immaginarlo, sarebbe necessario tornare ai principi che Marx già evocava quando auspicava un socialismo universale. La gratuità, l'arte del "fare" e non del "produr.re", il mettere in comune e gratuitamente a disposizione i beni necessari all'esercizio delle libertà e delle responsabilità ("beni essenziali"). Siccome non esiste uno Stato mondiale da conquistare, ciò potrebbe avvenire con l'esercizio di un potere su scala planetaria, con una transizione nello spirito del mondo, quell’“evoluzione rivoluzionaria" tanto cara a Marx. Attraverso il passaggio alla responsabilità e alla gratuita, ogni uomo diverrebbe cittadino del mondo e il mondo sarebbe infine fatto per l'uomo.

Bisognerà allora rileggere Karl Marx. Vi potremo attingere ragioni per non reiterare gli errori del secolo trascorso, per non cedere alle false certezze, per ammettere che qualsiasi potere deve essere reversibile, che tutte le teorie sono fatte per essere contraddette, che ogni verità è destinata a essere superata, che l'arbitrio è morte sicura, che il bene assoluto è la fonte del male assoluto, che il pensiero deve restare aperto, non deve spiegare tutto ma ammettere punti di vista contrari, non confondere la causa con i responsabili, i meccanismi con gli attori, le classi con le persone. Lasciare l'uomo al centro di tutto.

Per riuscirci, le generazioni future si ricorderanno del proscritto Karl Marx che, nella sua miseria londinese, piangendo i figli morti, sognava un'umanità migliore. Torneranno allora verso lo spirito del mondo e il suo messaggio principale: l'uomo merita che si speri in lui.” (323-324)

Nel 2007, quindi successivamente alla biografia di Marx, in un conciso ma denso saggio (Breve storia del futuro, Fazi, Roma), Attali ha affrontato nuovamente il problema delle prospettive che si aprono all’orizzonte della storia, illustrando uno scenario terribile di precipitazione del mondo intero nella spirale di un iperconflitto generalizzato e esprimendo la sua ottimistica convinzione che tale scenario possa essere scongiurato da un salto di qualità verso un’iperdemocrazia che coniughi efficienza e equità. Un salto del genere mi sembra ancora più utopistico di una rivoluzione comunista.

Il mondo, forse, dovrà tornare a Marx anche accettando un altro aspetto del suo pensiero: la necessità di ridurre il lavoro al massimo grado per consentire agli esseri umani di dedicarsi, nel tempo libero, alla coltivazione di sé, degli affetti, della socialità, degli interessi e alla partecipazione politica attiva. Una prospettiva del genere postula, però, che così come i paesi arretrati debbano procedere verso un miglioramento della qualità della vita dei cittadini, quelli sviluppati debbano disintossicarsi dall’avidità del denaro e dalla compulsione consumistica. venendo meno il modello del mondo stregato occidentale, che affascina coloro che ad esso non appartengono, l’umanità si orienterebbe verso un modello equilibrato di sviluppo dell’uomo e del sociale più che del Capitale.

Un sogno, senz’altro: ciò nondimeno, un nobile sogno.